Coordinatore nazionale di Base Italia, ex segretario generale della Fim-Cisl, passato alla storia del sindacato come il principale fautore della rivoluzione Industria 4.0. Classe 1970, Marco Bentivogli ha lasciato la Fim-Cisl lo scorso mese di luglio dopo averla guidata dal novembre del 2014. Nel 2018 con l’allora Ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda lanciò un Piano industriale per l’Italia delle competenze (Piano Calenda-Bentivogli). E da qui parte la nostra conversazione.

Nelle priorità illustrate dal presidente Draghi, ritrova qualcosa di quel Piano?
Di quel Piano ci sono moltissime cose, prima riprese dal Piano Colao e ora dalle priorità riprese dal premier. Quel piano fu scritto a inizio 2018, 3 anni fa ed è ancora molto attuale, anche perché purtroppo sono stati anni sciupati in “welfare elettorale”, bonus, sussidi. Un paese forte e libero ha qualche idea sulla sua traiettoria di sviluppo e si attrezza per esaltare e cogliere le opportunità dell’innovazione e ridurne e governarne i rischi. Per questo parlavamo di competenze, di diritto soggettivo alla formazione, di sistema duale. Oggi nella classifica Desi sulla digitalizzazione l’Italia è al 24° posto su 27 in Europa. Per questo dicevamo che era utile avere più investimenti sulla ricerca come ben ci ricorda il Piano Amaldi, un’infrastruttura per la generazione di innovazione tecnologica e competenze e loro trasferimento in particolare a pmi (piccole e medie imprese, ndr) e lavoratori. Mi auguro che si interrompa subito il metodo “vediamo l’effetto che fa” facendo girare le bozze in stile Casalino purtroppo rivisto con il decreto sulla riorganizzazione dei Ministeri. Questo paese demonizzava i tecnici e ora vi ricorre, il giudizio dei tecnici al Governo, nei mitici sondaggi, è molto più alto dei “politici”. Il tema vero è che i partiti si tengono uniti solo dentro logiche del “potere per il potere” e nel sottogoverno questa cosa è stata imbarazzante. Alcuni dicono «per fortuna l’80% delle risorse del Next Gen Eu le gestiranno i tecnici», la politica reagisce smentendo Draghi e dicendo che questo o quel tecnico lo hanno indicato loro. Insomma siamo al default di un ceto politico e dei partiti che meriterebbe una fase di riflessione seria. Molto più che un congresso.

C’è chi ha detto o scritto che l’affidarsi a un tecnico, sia pure di così acclarata capacità e autorevolezza internazionale quale Mario Draghi, segni la “morte della politica” e del sistema dei partiti. Le cose stanno così?
La politica in realtà non perisce. Muore nel discorso pubblico, quando si parla di caratteri, di gossip, quando sparisce ogni passione civile a muovere i progetti umani collegati alla politica. I partiti attuali vanno completamente ripensati, quelli “personali” non hanno profondità e prospettiva. Incarnare in un leader che i sondaggi assegnano come “popolare” aiuta a accorciare il ciclo di vita di quel partito. Quelli tradizionali dovrebbero ripensarsi radicalmente. Grillo è stato costretto al solito show, stavolta vestito da astronauta, per fare notizia nell’incoronazione di Conte leader del movimento cinque stelle. Operazione che fa chiarezza dentro quel movimento. E che però dovrebbe farla anche dentro il Pd. Il leader di un movimento che non si è mai vergognato di definirsi populista è anche il leader di coalizione dentro cui si colloca il Pd? Un leader di partito può essere, credibilmente, un federatore? Nessuna vergogna ma va detto con chiarezza. Da sinistra la salmeria di argomentazioni per cui c’è un “populismo democratico” o “buono” o che “servano i 5S per ricongiungere la sinistra democratica al popolo” è pazzesca. Ma che idea si ha del popolo? Invece di rimettersi in discussione e uscire alle oasi protette ztl, ci si ricongiunge con i “napalm51” alleandosi con i parlamentari che su questioni scientifiche citano i “cuggini”? L’errore più grande, tra gli altri, del Governo Conte è stato non trattare gli italiani da adulti. Ogni recidiva è doppiamente colpevole. L’ ”istituzionalizzazione” di un partito non avviene parlando come gli altri partiti e manifestando analoghe e più spiccate capacità spartitorie di incarichi di governo, sottogoverno e partecipate. Non si diventa europeisti e liberali con un’intervista, dopo che per anni si sono fomentati gli istinti più forcaioli e si è demonizzato l’Europa, gli avversari e qualsiasi cultura di mediazione. Non dimenticherò mai nei giorni in cui Lega e 5S cercavano una quadra per fare il Conte 1, ospiti dai gesuiti di Civiltà Cattolica, intervenni spiegando che avrebbero dato prova di maturità nel cercare il minimo comune multiplo con le altre forze politiche e Vito Crimi, sotto lo sguardo compiaciuto di Vincenzo Scotti, disse, che «si vincono le elezioni con il massimo comun divisore dagli altri». Passare dalla vocazione minoritaria radicale ma populista al trasformismo istituzionale è un bel salto. Non lamentiamoci se le persone non si fideranno più di qualsiasi politico/a.

Dopo la crisi pandemica, niente sarà più come prima. Di certo, quello che non sarà più come prima, è il lavoro. In questa sfida del cambiamento, la politica, in particolare le forze progressiste, arriva “disarmata”?
La politica ha dimenticato il lavoro 30 anni fa. Da allora le finte ricongiunzioni con il lavoro e i lavoratori sono state quelle plasmate dai talk show. I lavoratori non sono più un soggetto rivoluzionario, anzi votano in massa la Lega, le fabbriche non sono più il luogo della rivoluzione. Per questo l’unico lavoratore interessante è quello disperato o morto. La politica spesso si affida a “esperti di corte” che sono tutto, tecnici che sopperiscono alla mancanza di qualsiasi esperienza e competenza di troppi politici. Appena lasciato il sindacato, da cittadino mi sono dedicato ad alcuni sogni (pensate che tristezza) che avevo dal 2015: come portare una struttura simile al Fraunhofer in Italia e insieme ad altri ci stiamo riuscendo. La politica fa finta di nulla, noi andiamo avanti. Il paese si è suddiviso tra la Lega al nord e i 5S al sud. Alla sinistra è rimasto poco centro Italia. E gli spazi che i 5S perdono vanno all’astensione o a Fdi. Come dice Giorgio Tonini, «gli elettori del Pd sono prevalentemente ceti medi urbani che vivono di spesa pubblica». Ci sarà un motivo per cui il voto operaio, il lavoro autonomo sono andati altrove? Un partito che si regge su un patto di sindacato non ha nelle corde un suo ripensamento. Quando si dà profumo di solennità a parole che durano meno di un mese, vuol dire che si confonde la tattica con la strategia. Troppi “mai con” e “abbiamo una sola parola”, un penultimatum dietro l’altro, quando non si verificano mai le cose che si annunciano, la riflessione da fare è seria e profonda. E che un partito che è in tutti i gruppi per l’eguaglianza di genere lascia alle sue dirigenti il sottogoverno manifesta una crisi. Io sono tra coloro che non sono affatto contento dello stato di salute del Pd. Ma ora Zingaretti deve sorprendere tutti, scontentare chi ha vicino e aprire una fase veramente nuova. Non si apre nulla di nuovo se non si ammettono sottovalutazioni ed errori e ci si arrocca. Sarebbe un gesto di forza. Le parole di Draghi al Senato non sono condivise, nella sostanza, dalla maggioranza del Parlamento. Sono tuttavia i contenuti del migliore riformismo italiano, di Caffè, Vicarelli, Tarantelli ma anche di Pierre Carniti. E della gran parte dell’Italia che non si rassegna all’assenza di alternative tra il modello ungherese e quello venezuelano. L’ultima carta che ha il Pd è guidare una costituente dei riformisti italiani e rimettere al centro lavoro e innovazione. Io ho scelto di aderire all’appello “unire i riformisti” perché credo che non si aprano fasi costituenti mettendo veti o preconfezionando gruppi dirigenti a tavolino. Servono idee e persone che le incarnino.

Sia i partiti che le organizzazioni sindacali hanno un problema enorme, irrisolto: quello della rappresentanza sociale. Come andrebbe declinato, a suo avviso?
Il tema della rappresentanza sociale e della crisi della sua rappresentanza è un tema globale. Il primo modo per non affrontarlo è negare la questione. Continuo a pensare che serve rispostare il baricentro alle categorie, accorpandole come si è fatto in tutta Europa, sia sul versante datoriale che sindacale e avere ruoli in sinergia ma distinti tra categorie e confederazioni. Tutta la rappresentanza politica e sociale se non ha il coraggio di cambiare radicalmente resterà un’organizzazione di servizi. Importanti sicuramente, ma la democrazia sostanziale ha bisogno di partecipazione dal basso e se partiti e sindacati non si pongono seriamente il problema, il tema resterà aperto e risolto da altri che non hanno a cuore la democrazia rappresentativa. Non esiste democrazia senza partiti e sindacati forti, liberi e rappresentativi. Rispetto agli anni 70 aumentano le diversificazioni nel lavoro, servirebbero proposte unificanti: pubblico e privato, tempo indeterminato e contratti a termine, giovani e anziani, donne e uomini. Lavoro subordinato e autonomo, nuovo lavoro indipendente. Negli ultimi anni invece le distanze sono sempre più marcate. Il mondo è un’altra cosa e insistere a descrivere e voler contenere il nuovo nei vecchi contenitori del ‘900 funziona sempre meno.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.