La perfida Albione. Per carità, abbiamo sempre avuto sentimenti contrastanti verso le bianche scogliere di Dover. Sono, nell’Europa occidentale, quanto di più distante vi possa essere dalla nostra cultura e dalle nostre tradizioni. Eppure ne siamo affascinati da sempre. Adoriamo la musica inglese, il suo teatro, il suo calcio, la sua letteratura, Winston Churchill. La Brexit è, da questo punto di vista, una ferita dolorosa perché segna la scelta di destini diversi, lo strappo di una visione comune. Oggi la nuova peste ci riporta insieme e ci costringe a guardare alle stesse cose con la stessa preoccupazione. In questi giorni l’idea di Boris Johnson di non porre praticamente barriere al dilagare del virus chiedendo solo alla popolazione anziana di mettersi al riparo ha suscitato sconcerto, quasi orrore tra gli esperti e la gente comune.

L’inquilino di Downing Street è apparso, a dir poco, un cinico, mosso dall’intento di portare in salvo la propria isola dando credito all’idea astrusa di consentire al contagio di espandersi sino a giungere alla soglia critica del cosiddetto “effetto gregge” quando la comunità diviene sterile o risulta composta in maggior parte da persone immuni perché poste in grado di sviluppare (soprattutto per la giovane età e la bassa letalità del virus) autonome difese immunitarie. Un bagno di sangue secondo i più, che costerebbe migliaia di vittime agli inglesi e, in primo luogo, come in Italia, tra i più anziani.

Archiviare questa presa di posizione come quella di un bislacco e un po’ naif personaggio politico è forse la scelta più giusta. Tuttavia. Tuttavia nessuno può seriamente pensare che il Regno unito sia in mano a folli e cinici. E quella scelta deve pur sempre interrogarci per il rispetto che dobbiamo a una nazione così importante. Domanda facile facile. Diamo per scontato che in Italia «tutto andrà bene» (pessima locuzione per giunta iettatoria che infesta film e serie televisive americane: non c’è pellicola in cui al moribondo non si dica che «tutto andrà bene») e che nel giro di 15 o 21 giorni noi italo-cinesi – stipati in casa e con le serrande abbassate – vedremo ridursi, come a Wuhan, i contagiati a poche decine.

Dopodiché. Ecco, appunto, dopodiché dovremmo passare alla fase due del modello escogitato da Pechino: evitare il contagio di ritorno e per farlo dovremmo serrare le frontiere, chiudere ogni varco, mandare in quarantena chiunque entri in Italia, aspettare che le acque della morte si ritirino in ogni Paese vicino e sperare che un cittadino tedesco infetto non entri di nuovo in contatto con un abitante di Codogno perché a quel punto la tragica giostra comincerebbe a girare di nuovo.

È vero che tocca agli esperti parlare e indicare la strada per venir fuori da questo incubo, ma è giusto pretendere dalla tecnocrazia medica che sta di fatto guidando il Paese in questi frangenti e che impone alla politica lo spartito delle iniziative da assumere di dare risposte chiare al riguardo. Posto che non siamo la Cina, né la Corea del Sud, deve essere detto chiaro ai cittadini se caso mai l’unica soluzione che abbiamo per uscire dall’incubo sia la scoperta di un vaccino o se disponiamo di altre opzioni. Perché, a occhio e croce, solo vaccinando 60 milioni di italiani e tutti coloro che entreranno nel Paese nei mesi e mesi a venire ci potrà essere la certezza che il virus possa continuare a circolare senza più mietere vite.

La discesa in campo di nazioni come gli Stati Uniti e la Cina rende ovviamente consistente la speranza che nel giro di poco tempo se ne possa venire a capo. Anche se, è giusto ricordare, che solo un paio di settimane or sono gli stessi esperti hanno detto che occorrerebbe circa un anno e mezzo per arrivare alla distribuzione di massa di un vaccino testato ed efficace. Pochi mesi o tanti mesi non è cosa da poco ovviamente e anche su questo profilo della questione ci vorrebbe chiarezza.

Nel frattempo, se questa fosse effettivamente la traiettoria della strategia in atto, l’Italia dovrebbe restare bloccata, ferma, immobile, fragile, senza contatti, con le frontiere sigillate e le porte ancora sbarrate. Se serve gli italiani lo faranno, ma allora non può essere fatta circolare o lasciata assecondare l’idea che nel giro di due o tre settimane il peggio sarà passato e che l’agognato crollo dei contagi avrà chiuso la partita. Fino alla distribuzione su vasta scala di un vaccino dovremo vivere come in una campana di vetro, isolati da tutto e da tutti, sospettosi verso chiunque si avvicini, rancorosi verso ogni diverso o straniero. A proposito diceva Albert Camus: «Una disgrazia tutti sanno cos’è. È una cosa che lascia senza difesa» (Lo straniero), ma da cui occorre sapere come venir fuori.