Le misure
Il Coronavirus passerà, ora dare tutti una mano per contenere diffusione
Scuole chiuse fino al 15 marzo, ma niente panico, non è un’emergenza, è solo un cambiamento di vita. Temporaneo. “Emergenza”, la parola che andrebbe abolita. Emergenza è il ricordo delle peggiori leggi, da quelle sul terrorismo, fino a quelle sulla mafia. “Emergenza” è ciò che oggi ci invita a dare il peggio di noi, dal panico (al nord) al menefreghismo (al centrosud). L’epidemia c’è e potrebbe diventare pandemia. Il virus Covid-19 non è la peste né il colera, ma è molto contagioso e il problema vero oggi è soprattutto contenerne la diffusione, proprio per evitare la pandemia. Il pericolo c’è ed è serio: un numero elevato di malati che necessitano della terapia intensiva potrebbe far esplodere il nostro sistema sanitario nazionale, un’eccellenza nel mondo.
È indispensabile quindi prima di tutto attenersi con scrupolosità alle regole che ci vengono dispensate da chi ne sa di più, cioè i medici specialisti. Ogni regola che ci stanno consigliando ha un senso, non va né interpretata come un ordine da caserma né come una cosa bizzarra da trattare come fake o irridere in qualche vignetta. Perché stare in casa, per esempio? Prima di tutto perché siamo ancora in inverno ed è meglio stare al calduccio per evitare le influenze stagionali. Ma ha senso anche perché, meno contatti fisici si avranno con altri esseri umani e meno probabilità ci saranno di contagi. Non sarà sempre tutto chiuso, ha riaperto il Louvre, basterà abituarsi ad evitare il fenomeno “sardine”, che non è solo un movimento politico, ma anche un modo di starsi addosso. Si potrà uscire e anche incontrare gli amici. Solo che le regole dei rapporti tra persone per un certo periodo saranno diverse. L’affettività, l’amore e la passione, nessuno ce li toglierà. Ma l’abitudine ai bacetti e alle strette di mano per ogni incontro, per un po’ sarà sospesa.
Dobbiamo sapere che non passerà presto, che ci vorrà del tempo e che dovremo convivere con la nostra paura, con le nostre debolezze, con una vita più incerta, forse più precaria. Siamo abituati a vivere nel bozzolo protettivo del progresso, della globalizzazione, di una vita professionale e sociale molto attiva, del giro del mondo in pochi giorni. Ora siamo costretti a fermarci per un po’, a centellinare giornate in cui tutto si trasferisce nelle case. Sono chiusi teatri e cinema, scuole, musei e palestre. Inoltre, laddove è possibile (e anche indispensabile, come nelle “zone rosse”), si dovrà trasformare il lavoro esterno in smart working. Magari troveranno più senso termini come empatia, condivisione, solidarietà, mentre nei condomini metropolitani o nelle villette di paese ci si troverà a occuparsi, insieme o a turno, di tutti i bambini che non andranno a scuola.
Insomma, si tratta di trovare nuovi equilibri, forse più simili alla vita dei nostri nonni, senza vergognarci della nostra fragilità. È fragile il nostro corpo, perché basta un microbino piccolo così, dal nobile nome di “Coronavirus” per metterne a rischio l’integrità. Ed è fragile la nostra mente, se accettiamo il panico in luogo della paura, sentimento non così difficile da esser governato.
Ci abitueremo, sapendo che i tempi non saranno brevissimi, ma che passerà. Non è un’emergenza, è un inedito pezzo della nostra vita che ci costringe a nuovi equilibri. Magari con un pizzico di saggezza in più.
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