La guerra “virale” scatenata dagli Stati Uniti contro la Cina. E ancora: l’Europa ai tempi del Covid-19 e la crisi libica che bussa alle porte dell’Italia. Temi caldissimi che il Riformista affronta con il professor Stefano Silvestri, tra i più autorevoli studiosi di politica internazionale, già presidente dell’Istituto affari internazionali (Iai).

Ci sono prove sostanziali che il Coronavirus sia nato in un laboratorio a Wuhan. E poi ancora: «Non è la prima volta che siamo colpiti da un virus per colpa di errori nei laboratori cinesi». Così il segretario di Stato Usa, Mike Pompeo. E Trump rincara la dose paragonando l’ “attacco” del Coronavirus all’attacco giapponese di Pearl Harbor. La Cina del terzo millennio come il Giappone degli anni Quaranta del secolo scorso? Fuori dal dibattito scientifico, qual è il tratto politico di questa nuova offensiva scatenata da Washington contro Pechino?
Trump pensa alla sua possibile rielezione. E questo obiettivo potrebbe essere tanto più facile da raggiungere se l’attuale inquilino della Casa Bianca ci arrivasse non dico come commander in chief, ma almeno come presidente in una situazione di crisi. Trump ci sta prendendo gusto a questo ruolo, tanto da cimentarsi con arditi paragoni con tutti i presidenti “eroici”, addirittura con Abramo Lincoln, che peraltro non fece una bella fine. Siccome ha gestito male la vicenda del Coronavirus e si è fatto portatore di idee balzane, per usare un eufemismo, allora adesso cerca di recuperare in credibilità e popolarità. E se c’è una cosa su cui i Democratici americani sono più in difficoltà ad attaccarlo, questa è la Cina, su cui, anzi, c’è un qualche consenso bipartisan nel dire che Pechino è una minaccia. Ora Trump cerca di cavalcare questa tigre, tornando all’inizio della sua campagna sul Coronavirus, quando lui chiamava il Covid-19 il “morbo cinese”. Le ultime uscite di Pompeo a cui lei faceva riferimento, altro non sono che una estensione di questa visione politico-elettorale trumpiana. Il problema per Trump è che sembra che non ci creda nessuno. Anche perché, ammettiamo pure che il sistema di spionaggio Five Eyes abbia effettivamente qualcosa che colleghi questo virus a dei laboratori cinesi, se così fosse stato, Trump avrebbe dovuto imbastire un’altra campagna…

Quale, professor Silvestri?
Partendo dagli scienziati. Avrebbe dovuto prima dimostrare le cose scientificamente e solo dopo accusare la Cina, allora avrebbe avuto un’altra credibilità. Non è peraltro la prima volta che gli americani accusano con gande enfasi qualcuno di avere imbrogliato…

Alcuni esempi storici?
All’epoca della presidenza Kennedy, Stevenson, allora rappresentante degli Stati Uniti al Consiglio di sicurezza dell’Onu, andò con la famosa “pistola fumante”, e cioè con le prove inoppugnabili dei missili russi a Cuba, mettendo l’Unione Sovietica in grande difficoltà. Da allora, qualcuno ha sempre sognato di fare lo stesso. L’ultima volta è toccato all’allora segretario di Stato Colin Powell che venne mandato al Palazzo di Vetro dal presidente George W.Bush a raccontare balle sulle armi nucleari in mano a Saddam Hussein. Powell che sapeva bene che quella era una balla colossale, si sacrificò, anche perché a quel punto la macchina militare americana era già partita. Questa volta Pompeo non ha neanche questa scusa, perché non c’è una macchina militare americana pronta ad attaccare la Cina. Anche per questo ha fatto una figura ridicola.

Resta il fatto che per Trump e i suoi consiglieri più stretti, la Cina sembra essere una vera ossessione.
In verità, il fatto che la Cina sia oggi il vero rivale, potenziale se non altro, per gli Stati Uniti, questo non lo pensa solo Trump ma lo pensava anche Obama, e prima di lui Bush jr. Questa “ossessione” è il prodotto del mutamento degli equilibri internazionali. Quello che meraviglia, semmai, è che Trump non segua la stessa strategia che ha avuto così grande successo con l’Urss, e cioè quella di rafforzare le sue alleanze, contenere la potenza cinese, e avviare anche misure di distensione e controllo degli armamenti, il che, in ultima analisi, consoliderebbe, come fu allora, la superiorità americana. Invece, siamo all’abbaiare alla luna.

L’ambasciatore di Pechino a Ginevra, Chen Xu, ha chiarito che la Cina non darà la priorità all’invito di esperti internazionali per indagare sull’origine del Coronavirus fino a quando non sarà sconfitta la pandemia. Come leggere politicamente queste affermazioni?
Il messaggio mi sembra chiaro: per noi non è particolarmente rilevante in questo momento fare una indagine speciale per vedere come è nata l’epidemia. Riteniamo di avere elementi sufficienti per andare avanti nel compito principale che è quello di trovare la maniera di sconfiggere il Covid-19. In sostanza dicono: questo è un tentativo di distrazione a fini politici per non parlare più dell’epidemia ma della sua nascita, mentre il vero problema è l’epidemia.

A proposito di “ossessione cinese”. C’è chi paventa l’estendersi sull’Italia della lunga mano di Pechino.
Come al solito noi ci allineeremo alla fine, quando finalmente la nostra classe politica capirà che non c’è niente altro da fare. Con la Cina possiamo avere ottimi rapporti economici, anche qualche buon rapporto politico, ma sempre nel quadro del nostro sostanziale allineamento con gli Stati Uniti. Non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Piuttosto mi aspetterei oggi che l’Europa, se avesse ancora un po’ di pensiero strategico, si impegnasse di più nel Pacifico, con paesi come il Giappone, la Corea del Sud, l’Australia e altri, tra i quali l’India. Schierandosi di più con gli Stati Uniti ma al tempo stesso sostenendo quella stessa dottrina che abbiamo sempre portato avanti, sia pure con alti e bassi, in Europa, e che va sotto il nome di “dottrina Harmel”, e cioè contenimento da un lato e distensione dall’altro.

Professor Silvestri, al tempo del Coronavirus, che immagine sta dando di sé l’Europa?
Un’immagine a chiaroscuro. Le istituzioni, dalla Commissione europea alla Bce, tutto sommato stanno reagendo bene. Quelli che non sembrano che pesci prendere sono i governi, in genere a causa delle loro varie debolezze politiche interne. La sfida dell’Europa è tutta qui: se i governi riescono a dare spazio e autorità alle politiche concepite in sedi europee. È necessario sicuramente sviluppare strumenti comuni in campo sanitario, industriale, come in quelli di politica estera e di difesa, però è essenziale che tutto questo s’inquadri in una prospettiva di maggiore coerenza e unità di visione strategica da parte dell’Europa di fronte alle crisi in atto, che non si riducono alla pur grave crisi pandemica, perché altrimenti le divergenze politiche da un lato impatteranno negativamente sullo sviluppo di una difesa europea comune, e dall’altro diminuirà la forza contrattuale dell’Europa nei confronti delle altre potenze in campo.

Una sfida per l’Italia è certamente la crisi libica, che porta con sé questioni cruciali, quali la sicurezza, la difesa dei nostri interessi petroliferi, i migranti… Ma bastano gli appelli alla moderazione e il ripetere che non esiste una soluzione militare alla crisi libica per riconquistare un ruolo?
No, non bastano, e le dinamiche sul campo lo stanno a dimostrare al di là delle buone intenzioni degli appellanti. Evidentemente senza qualcosa di più, che può andare dall’iniziativa politico-diplomatica fino all’intervento militare. Peraltro noi abbiamo già militari sia sul terreno che in acque libiche, solo che li manteniamo un po’ su una torre d’avorio. Anche qui l’indecisione regna sovrana.

I player della partita libica sembrano essere ad Ankara, Il Cairo, Mosca, negli Emirati Arabi…
Il vero problema è che ci sia una politica europea unitaria nei confronti della Libia. Mi pare che Borrell (L’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione europea, ndr) stia cercando di muoversi in questa direzione e l’Italia farebbe bene a sostenerlo e incoraggiarlo.

Una iniziativa europea che però deve fare i conti con gli attori regionali, in particolare la Turchia, che sostiene il Governo di accordo nazionale di Fayez al-Sarraj, e l’Egitto che invece appoggia l’uomo forte della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar. È possibile mettere d’accordo Erdogan e al-Sisi?
Credo che questo sia facilissimo, soltanto che porta alla divisione della Libia, in due o tre protettorati. Il problema non è tanto mettere d’accordo Turchi ed Egiziani, ma avere una politica per l’insieme della Libia. Ed è quello che continua a mancare.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.