La pace in Ucraina. E dove, sennò? “Ma è complicato, impossibile”, avevano fatto presente ai sessanta manifestanti per la pace e il disarmo partiti da Roma, da Milano, da Trento per andare a mettere i loro corpi in piazza, a Kiev. «Inutile, rischioso, scivoloso, ci dicevano. Non abbiamo sentito ragioni», dicono gli attivisti del Mean.
Tra loro anime diverse che nella maggior parte dei casi non si conoscevano fino a pochi giorni fa: il Movimento Europeo di Azione Nonviolenta ha costruito da Kiev, compiendo un piccolo gesto rivoluzionario, l’inizio del suo percorso.

«Una strada lungo la quale daremo vita a iniziative nonviolente, a manifestazioni, a marce e a ogni tipo di impegno per affermare la necessità di dire no alle armi e sì a una Europa unita sotto il segno della solidarietà e della pace», ha detto ieri dalla sala del consiglio comunale di Kiev il fondatore e portavoce del Mean, Angelo Moretti. I riferimenti sono chiari: Gandhi e il suo satyagraha, Aldo Capitini, Altiero Spinelli. L’Europa è la patria di questi utopisti del terzo millennio, la rete e la piazza le due sedi in cui trovarli. Credenti e non credenti singolarmente uniti da un obiettivo alto e coraggioso: sfidare la guerra sotto le bombe, convincere i belligeranti a smetterla, suggerire agli Ucraini in armi che qualche alternativa in fondo c’è, oltre a uccidere e a morire. Eccoli coordinarsi su Zoom, conoscersi sulla chat di Whatsapp. Decidersi a partire costituendo una squadra unica, da percorsi diversi. C’è Base Italia, con la presidente Emanuela Girardi e il segretario, già leader Fim Cisl, Marco Bentivogli. E intorno a loro i sostenitori della necessità dell’Ucraina di difendersi, anche con l’esercito armato dall’Europa, ma con l’obiettivo ben chiaro di un tavolo di pace. Posizioni su cui è anche l’eurodeputato Pd Pierfrancesco Majorino che dal Parlamento europeo segue l’iter di adesione di Kiev.

Cosa è successo, nei fatti? I convogli dei pacifisti si sono incontrati a Roma, Milano e Trento e ciascuno ha raggiunto Cracovia, in Polonia, con propri mezzi. Sessanta persone di tutte le età, le sigle, le esperienze si sono date un coordinamento, hanno fatto cassa comune e firmato un accordo di reciprocità. Da lì è stato superato a piedi – tra sabato e domenica – il confine con l’Ucraina, a Medyka. Quando gli agenti della frontiera ucraina hanno interrogato la comitiva, la risposta è stata unanime: “Andiamo a fare un training camp sull’evacuazione in caso di bombardamento”. L’ong che ha reso possibile il viaggio e l’accoglienza in territorio ucraino, Act4Ukraine, in effetti si occupa di quello. Il primo a passare la frontiera è stato un frate francescano del Sacro Convento di Assisi. Poi una professoressa che insegna progettazione all’università di Milano. Un taglialegna della provincia di Trento. La giornalista antimafia Marilù Mastrogiovanni. Un insegnante di Grosseto. L’attivista per la cooperazione Elizabeth Rijo, e tanti altri.

Un esercito variopinto, armato delle migliori intenzioni e di onestà intellettuale: “Iniziare è difficile, difficilissimo. Ma messo un primo seme, la pianta della pace si sviluppa sempre”, raccomanda Maurizio Colace. La giornata di ieri è stata però capace di restituire alle aspirazioni degli attivisti più di una conferma. Le istituzioni ucraine vogliono iniziare a ragionare di pace. “Non ci servono solo armi, no. Serve ragionare di altro, di medicine, di dotazioni sanitarie, di strumenti per scongiurare il dissanguamento”, dice Igor Torskyj, medico ucraino che ha lasciato il lavoro per condurre al sicuro, con la sua ambulanza, centinaia di feriti o di persone in pericolo, da evacuare. Con il dottor Torskyj e la sua Act 4 Ukraine gli attivisti di Mean sono stati ricevuti dal sindaco di Kiev. Lo sguardo di Vitalij Klyčko guarda oltre la cronaca quotidiana, prova a tracciare una prospettiva per il futuro. Parla con i pacifisti di diritti e di stato di diritto, della scelta della libertà e dell’adesione alla Ue come scelta di campo per la pace. Racconta di come l’Ucraina abbia rinunciato nel 1994 alle armi nucleari che si era trovata a possedere dal 1991. Di come sia necessario smettere di sparare, riprendere una vita fatta di convivenza tra le culture e le fedi.

Basata su un incontro di civiltà. Ed è un primo passo che promette bene, se nel vocabolario belligerante riescono a entrare le parole e perfino le idee del disarmo. Agli attivisti viene dato il Municipio intero per dispiegare le bandiere variopinte della pace. Il “Peace” trionfa, davanti agli occhi sorpresi dei militari. Giovani, giovanissimi. Ragazzi e ragazze che sembrano dirsi: “Fosse vero”. La giornata degli attivisti prosegue al museo di storia contemporanea. “La storia la stiamo facendo noi, adesso”, dice al gruppo la guida. Il coprifuoco affretta le cose e riporta tutti in albergo. Viene servita una zuppa di borsh. Tipicamente ucraino, tradizionalmente russo. Come la parola Mir, pace. È russa? È ucraina? E se fosse di entrambi? La riflessione viene interrotta dalle sirene. Un attacco missilistico partito dalla Bielorussia, forse diretto a Kiev. I pacifisti si devono chiudere nel bunker. Come sarebbe bello se là fuori la smettessero davvero.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.