Emergenza carceri
Scarpinato supera Gratteri: la fantasiosa ricetta del pg di Palermo per ridurre il sovraffollamento

Che le carceri italiane siano sovraffollate, quindi invivibili e oggi anche molto pericolose per il rischio di contagio da Coronavirus, nessuno ha più il coraggio (o la faccia tosta) di negarlo. Poi ognuno ha la sua ricetta per affrontare e magari risolvere il problema. La palma per l’originalità – dopo la bacchetta magica del procuratore Gratteri che in dieci giorni ne costruirebbe tre o quattro di nuove – va oggi a un altro (e alto) magistrato, il dottor Roberto Scarpinato. Procuratore generale presso la corte d’appello di Palermo, sessantotto anni (quindi non ha bisogno di emendamenti di sostegno, lui in pensione va tra due anni), ama illustrare di suo pugno il pensiero, piuttosto che scendere al livello di un Gratteri qualsiasi e invocare l’intervista. Tanto l’ospitata sull’organo di famiglia, pardon, di Casta, è sempre garantita. E lui si fa scrittore. E ci stupisce.
La ricetta è semplice. E come mai non ci avevamo pensato? Prima della soluzione l’alto magistrato fa la premessa, che centra il vero problema. Dalle statistiche del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ci informa, risulta che «in carcere a espiare la pena finisce quasi esclusivamente chi occupa i piani più bassi della piramide sociale. Il numero dei colletti bianchi è talmente esiguo da non essere neppure statisticamente quotato». Conclusione: «Forse questo è uno dei motivi dell’eterna irresolubilità della questione carcere». Chiarissimo. Se ci fossero in carcere più politici e imprenditori e meno proletari, le prigioni sarebbero almeno pensioncine romagnole con distanziamento sociale. Ora, noi sappiamo come ragiona il dottor Scarpinato. Lo conosciamo da moltissimi anni, ma in particolare il suo pensiero, fin dai magnifici tempi in cui era sostituto insieme a Ingroia e Tartaglia alla procura di Caselli a Palermo, si era manifestato con l’intuizione investigativa dell’inchiesta “Sistemi criminali”.
Pur non usando ancora l’espressione “colletti bianchi” (una raffinatezza da procuratore generale), il giovane pm aveva già individuato delle cricche di padroni sfruttatori che tramavano contro lo Stato e la classe operaia: «una sorta di tavolo dove siedono persone diverse… il politico, l’alto dirigente pubblico, l’imprenditore, il finanziere, il faccendiere, esponenti delle istituzioni, e non di rado il portavoce della mafia». Purtroppo gli uomini di questa super-cupola non andarono mai in carcere, perché l’inchiesta finì in una bolla di sapone. Come la successiva, il primo tentativo di processo “trattativa” tra mafia e Stato. Solo al terzo colpo, e siamo ormai al 2008, le parole del fantasioso Massimo Ciancimino consentirono ai suoi colleghi di imbastire il più grande processo-farsa della storia. Scarpinato, che nel frattempo aveva fatto carriera, con il consueto sprezzo del pericolo, non si è però tirato indietro, e nella sua veste di procuratore generale, è riuscito con rocambolesche giravolte e portare il pluriassolto Calogero Mannino fino alle soglie della cassazione.
Il suo stile non è cambiato. Rimane un sognatore. Da pubblico ministero non amava la veste di repressore di reati che si fossero già verificati. Ha invece sempre preferito andarne alla ricerca, sapendo che in certi ambienti, magari quelli dei “colletti bianchi”, scavando scavando, e attraverso una lettura degli eventi di tipo storico-sociologica, qualcosa avrebbe trovato. Partendo da verità prestabilite e attraverso investigazioni molto estese si finisce spesso con l’andare a cercare la punizione più per condotte ritenute amorali che non illecite.
È il modo di procedere dei pubblici ministeri cosiddetti “antimafia”, per i quali tutto è mafia e le carceri dovrebbero essere grandi assembramenti di 41-bis. È anche un po’ la stessa sub-cultura del ministro Bonafede, che ha messo a dirigere il Dap due magistrati la cui prevalente esperienza è orientata alla repressione delle cosche. Forse il dottor Scarpinato non si rende conto del fatto che molti detenuti che oggi sono ai domiciliari, e che lui vorrebbe far tornare in galera, fanno proprio parte di quella base della piramide sociale la cui sorte gli sta così tanto a cuore. Dovrebbe però spiegarsi meglio. Se, come ha scritto, la prigione è «specchio fedele delle diseguaglianze e delle ingiustizie sociali fuori dal carcere» la sua soluzione è quella di svuotarle del proletariato in catene (magari fatto di picciotti) e riempirle di amici di Berlusconi?
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