Elezioni e futuro dem
Letta è il vincitore delle comunali, ma il suo campo largo è una trappola

Naturalmente le amministrative segnano un chiaro successo di Letta ma non costituiscono affatto una incoronazione del suo “campo largo”, che al contrario rimane un cantiere aperto attorno a un’idea arcaica e indeterminata. Bisogna stare alla larga, per evitare inciampi preoccupanti nei prossimi passaggi politici, da questa ossessione di un campo eterogeneo che disegnato già da Zingaretti avrebbe ottenuto dal voto nelle città la conferma della sua grande portata strategica.
Le elezioni stavolta valgono più per quello che hanno seppellito che per quello che hanno inaugurato. Il volto degli sconfitti conta di più della maschera dei vincitori. E tra i perdenti figurano certo Salvini e Meloni, che nella caduta certificano il naufragio di ogni idea di destra radicale che si proponga quale forza di governo. Senza lo scudo rassicurante e la funzione egemonica di un federatore alla Berlusconi nulla garantisce all’impresa sovranista una indispensabile vernice di moderazione che attenui il timore dell’avvento del governo della provocazione. Tra i dannati ci sono però anche i grillini che sono stati trafitti a Torino e a Roma e mostrano la loro residualità numerica che li spegne come temibili soggetti trainanti dell’antipolitica. Non si può ipotizzare che il momento populista sia scomparso, sono però feriti gravemente gli attori che lo hanno interpretato sinora con la rudezza necessaria per abbattere il sistema. Nomi senza più forze paiono i populisti divenuti inciviliti frequentatori dei palazzi. Il destino di questi simulacri pare legato più all’esigenza di rimanere in scena aggrappati a qualche ancora di salvataggio che a quella di attrezzare una nuova coalizione con una presenza incisiva di idee e truppe.
Il Pd vince ovunque giocando carte anche molto eterogenee (l’alleanza in stile lettiano è comparsa solo a Bologna e Napoli, troppo poco per indicare un modulo vincente), ma il campo nuovo non c’è ancora se non come una nostalgia del bipolarismo perduto e che difficilmente potrà ripresentarsi. Quando Letta dichiara che il Pd avrebbe tutta la convenienza ad andare subito al voto per intascare un plusvalore ma desiste dalla invocazione delle urne solo per un alto senso di responsabilità dice una cosa sbagliata. Il Pd avrebbe tutto da perdere dalla richiesta di interrompere l’esperienza di governo prenotandosi per un immediato passaggio di testimone a Palazzo Chigi. Il Pd è premiato da chi continua a recarsi ai seggi anzitutto perché (in un sistema che non esiste più, è rimasto senza popolo e quindi va riprogettato dalle fondamenta) svolge una funzione di sentinella in un sistema residuale cui ci si aggrappa in condizioni di emergenza. Le sue future mosse lo condurrebbero in una prospettiva del tutto incognita se i leader del Nazareno per un errato calcolo spezzassero questa mansione cruciale che rende il Pd un soggetto centrale, garante principale della continuità democratica della repubblica nello sgretolarsi degli attori, dei modelli di competizione.
Su questo delicato versante le ambiguità non pagano e rischiano di determinare un cortocircuito nella strategia politica. Il Pd e Leu farebbero perciò bene a interrompere ogni civetteria con le posizioni di Travaglio ed altri che a sinistra raffigurano Draghi come un eversore, un tiranno che organizza la dittatura dei padroni. A restituire vitalità a un partito che Zingaretti e Bettini avevano gettato in un vicolo cieco è proprio il rendimento positivo del governo della modernizzazione. Dinanzi alla centralità sistemica riconquistata dal Pd proprio grazie al governo Draghi si aprono due strade: il ritorno alla proporzionale per rigenerare i partiti e il loro profilo ideale-organizzativo in una impresa di rifondazione democratica dei soggetti della politica oppure la prosecuzione delle grandi manovre con piccoli attori in disarmo che si agitano per contrattare spazi, definire entrate ed esclusioni nella nostalgia che spinge alla riesumazione della ginnastica bipolare di altri tempi.
Accantonata la strada maestra di una ristrutturazione partitica con autonome culture rigenerate che richiede altre leadership con nuove idee, al Pd rimane l’incantamento per il magismo della formula bipolare che trionfa nel mare delle astensioni. Il miraggio del nuovo Ulivo segue un’ipotesi sbagliata, ma in politica capita anche l’eventualità di vincere operando con congetture errate. L’importante è non commettere errori grossolani nella gestione del tempo Draghi. Per schivare i rischi di lunghe e inevitabili schermaglie tattiche su chi deve stare nella partita e a quali condizioni accettare le intese, il Pd non ha altra alternativa rispetto a quella di essere l’ombra di Draghi, il partito sistema che garantisce un compromesso modernizzatore tra impresa e lavoro. Su questa invariante da cui non ci si schioda perché incarna una postazione strategica, è possibile poi sbrigare il gioco delle variabili coalizionali secondo le opportunità della tattica.
Ora che l’imprescindibile, il punto di riferimento dei progressisti è rimpicciolito e problematica diventa l’impresa contiana di salvataggio del M5S il tema delle alleanze si pone in altri termini rispetto a quelle dilettantesche dei mesi scorsi. Il M5S è dibattuto tra le esigenze di una definitiva istituzionalizzazione, con il riconoscimento del ruolo centrale del Pd nel cantiere delle alleanze e le spinte delle forze più obbedienti alle direttive del “Fatto” che sono pronte ad organizzare nuove cavalcate antisistema da giocare secondo la polarità tecnici-moltitudine, migliori-popolo.
Il voto indebolisce però questa inclinazione neo-populista perché agli occhi degli elettori il governo sembra nel complesso funzionare con efficacia senza provocare grandi traumi sociali. Il governo opera come artefice di una rivoluzione passiva il cui esito tra chi non lo ama è nel caso l’astensione, non la ribellione. Nel clima di rassicurazione che il governo di tregua garantisce quello che più di ogni cosa il Pd dovrebbe rintuzzare è la eventualità di un centro che, enfatizzando l’asserita incompatibilità dei riformisti liberali con i populisti, lascia il cosiddetto campo largo per giocare una diversa partita in cui sotto l’egida di un nuovo moderatismo la Lega verrebbe de-salvinizzata e la destra ridimensionata nelle sfumature di nero.
Il rischio competitivo maggiore per il Nazareno è quello di rompere con le forze liberaldemocratiche e quindi di vedersela con una destra che diventa centripeta grazie all’apporto di sensibilità liberali e di un Pd che viene schiacciato dalle esigenze coalizionali e appare centrifugo per agguantare l’area post-grillina in cerca di identità. In ogni caso, volendo giocare una partita nuova con uno schema antico, per il Pd rimane essenziale, anche nei tentativi di allargare la coalizione, conservare la patente di partito-sistema che esige coerenza nel sostegno al governo e per questo mantiene come strategica la sintonia con le sensibilità liberaldemocratiche.
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