Il dibattito sul conflitto in Ucraina
“Tocca all’Europa trattare con Mosca”, intervista a Claudio Signorile
Claudio Signorile, a lungo, negli anni ottanta, vicesegretario del Psi, del quale è stato il massimo esponente della sinistra lombardiana, è da trent’anni intellettuale apolide. Al Riformista confida una speranza: una Europa forte e unita che tratti, rappresentando l’Ucraina, al tavolo con la Russia.
Partiamo dai fondamentali: cosa significa essere riformisti?
I giovani socialisti di “Quarto Stato” di Nenni e Saragat dicevano che la democrazia è una rivoluzione permanente. Noi oggi dobbiamo invece dire che la democrazia è un riformismo attuato. Non è pensabile una democrazia vitale senza un riformismo capace di intervenire in tutti i passaggi della democrazia vissuta senza la capacità di governare, modificare, migliorare, trasformare: essere riformisti significa avere piena consapevolezza di questo. Gli aspetti ideologici, le scelte valoriali sono in qualche modo una realtà che segue e che accompagna l’attività del riformista. Che è prima di tutto ed essenzialmente un metodo.
Un metodo che dalla filosofia politica diventa applicazione di governo.
È il metodo del governare il cambiamento. Se vogliamo sintetizzare in una frase. E dunque analisi, comprensione, ragionamento, previsione…
Per Signorile, docente universitario, la scelta di fare politica attiva arriva nel 1956, non in un giorno come un altro. in un giorno speciale. Ce lo vuole raccontare?
Decisi di iscrivermi al Partito Socialista Italiano. Nella cultura del tempo la sinistra era una realtà ampia, diffusa. Non strettamente identificata in parti contrapposte. Socialisti e comunisti avevano fatto un’esperienza fallita – ma comunque un’esperienza unitaria. Era fine ottobre del 1956. Ero per strada, ascoltai alla radio le notizie che arrivavano sull’invasione russa di Budapest. Crollai in lacrime: vedevo andare a picco un mondo, il mio mondo. Guardai in modo diverso alla sinistra. E il giorno dopo andai a iscrivermi al Psi. Partito della libertà, del rifiuto dell’intervento armato. Non di una generica pace ma di una libertà attuata.
E adesso nel vedere i carri armati russi che entrano in Ucraina, cosa ha provato?
Mi ricordano quei fatti. L’invasione dell’Ungheria e le terribili stragi che avvennero in quei giorni,. E poi l’invasione di Praga, nel 1968.
La terza invasione russa in Europa cui assiste nella sua vita…
Sì, proprio come quelle due. Perché anche all’epoca non si poteva parlare di intervento militare ma, nel volere di Mosca, di “operazioni speciali” per ripristinare il segno antifascista di quei paesi, il cui buon governo era stato messo a rischio dall’ingerenza occidentale. Anche allora si parlava di difendere la libertà e l’integrità delle pacifiche popolazioni, minacciate dalla corruzione dell’Occidente. Erano le parole usate per invadere Budapest e Praga. Più o meno identiche a quelle che Putin usa oggi: non sono cambiati.
Italia ed Europa come devono reagire?
Mi aspetterei da parte nostra, di italiani ed europei, non solo un aiuto generico agli ucraini, ma qualcosa di più. Una iniziativa politica forte e tutta europea. Senza armi.
Per costringere non gli ucraini ma entrambi gli eserciti alla resa delle armi?
Nel momento in cui l’Ucraina fa una domanda di adesione all’Unione Europea e l’Ue accetta, sia pure in fase iniziale, questa adesione, l’Ucraina è Europa e l’Europa è in Ucraina. Se siamo d’accordo, vediamo come agire. Dobbiamo fare in modo che l’Ue prenda su di sé i suoi problemi strategici e politici che hanno segnato il rapporto e la conflittualità tra Ucraina e Russia.
E l’Ucraina a quel punto è da considerarsi inglobata nei confini della Ue?
Si. Ma con una conseguenza non banale: al tavolo della trattativa con la Russia, non ci va l’Ucraina da sola. Ci va l’Unione Europea. È questo il passaggio di qualità che potrebbe anche sciogliere un nodo. Perché finché la trattativa è tra un forte – la Russia – e un debole – l’Ucraina – non ci sarà trattativa ma battaglia sul campo. Ma se la trattativa si apre tra un forte, non militarmente impegnato, e un altro forte che è militarmente impegnato, Ue e Russia, le possibilità del tavolo sono molte di più. E a quel punto è l’Ue a dover chiedere il tavolo negoziale. Perché rappresenta le ragioni dell’Ucraina di oggi e di domani.
Se l’Ue riuscisse a parlare con una voce sola. Perché questo conta.
Attenzione, questo è in parte non più vero. Su molte cose l’Unione Europea ha parlato con una voce sola. Il veto dell’Ungheria non ha un valore pragmatico; la stragrande maggioranza degli Stati europei potrebbe convergere sul ragionamento che sto facendo io ora. Se si dicono cose forti, ho imparato nella mia vita politica, l’unità si costruisce e il consenso arriva. Non così quando si rinuncia a parlare o si preferisce alzare bandiera bianca. L’Unione Europea ha fatto passi da gigante in queste settimane e penso che siamo davanti a un passaggio cruciale.
Fine della logica di Yalta?
La logica di Yalta era una logica tutta politica; di schieramenti e convenienze. Si tratta di ricostruire il senso di quanto sto dicendo, una strategia condivisa e delle convenienze diverse, in un contesto di forze, esperienze militari e capacità economiche diverse. La logica di Yalta era di bipolarismo. Una nuova strategia va impostata sul multipolarismo, un passaggio di qualità significativo che se lo capiamo ci consente di uscire da una strettoia soffocante.
Abbiamo un gigante, in questo multipolarismo, con cui bisogna fare i conti. La Cina.
La Cina può stare dalla parte del multipolarismo competitivo. È una grande potenza strategica, economica, finanziaria. È la protagonista naturale del dialogo di cui stiamo parlando. Ed è la naturale interlocutrice dell’Unione Europea.
Cosa manca alla politica di oggi, che invece c’era nella sua Prima Repubblica?
Mancano i partiti. E non è una mancanza da poco. Erano scuole di valori, programmi, progetti. Vivevano nelle istituzioni e nei movimenti. Non esercitavano solo il potere ma la battaglia delle idee. Questa assenza pesa, perché la società se ne trova sguarnita.
La politica procede per leader più che per partiti. Tra questi ce n’è uno, Mario Draghi, che è diventato uno statista senza essere mai passato per i partiti.
È una figura importante, che abbiamo voluto, pregato. È uscito sulla scena come il Presidente. Non è un governo di unità nazionale, il suo. È il governo del Presidente. E lui ha avuto l’intelligenza di capire che questo significava la riorganizzazione di un sistema: a questo si è dedicato, con qualche successo importante come il Pnrr.
Vede in Mario Draghi un riformista? Ha fatto riferimento a Federico Caffè.
Mario Draghi è un riformista sincero e i suoi riferimenti a Federico Caffè, economista di riferimento chiarissimo per chi viene da questa scuola, parla da solo. Caffé era l’economista più vicino a Riccardo Lombardi, dunque proprio alla nostra sinistra socialista. Parlava di “riforme di struttura” come di riforme dalle quali non si può più tornare indietro. Draghi è uomo da riforme di struttura.
Abbiamo fermato troppo a lungo il Paese: la dipendenza energetica da Mosca è eloquente.
Ed oggi dobbiamo dire meno No e più Sì. Alla ricerca, alla produzione energetica, agli impianti e alle infrastrutture. Il tema dell’approvvigionamento energetico è drammatico: bisogna fare le cose che servono. Siamo vittime di errori strategici incredibili, il segno di una debolezza culturale impressionante. Che derivano dai Cinque Stelle e da un ecologismo ideologico stupido e dal fatto che nessuno, tra chi ha avuto responsabilità nelle istituzioni, ha capito che governare significa anticipare. Abbiamo sbagliato ad accettare la demagogia del non fare e così a lasciar fare ad altri. Il non fare è terribile. E se mi chiedeva cosa significa essere riformisti, ecco: significa anticipare quel che il governo di oggi deve fare prima che sia domani.
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