La diagnosi dei mali della giustizia civile italiana ha assunto ormai la struttura del paradosso: quante più parole e soluzioni vengono spese, tanto meno si vede la via della guarigione. Sicché sembra di essere di fronte alle curiose, e inquietanti, dinamiche della diagnosi psichiatrica della quale discorre Michel Foucault nel Potere psichiatrico. Non è un caso che io stia associando la questione della giustizia civile ai disturbi mentali. Cominciamo allora col dire ciò che non serve alla cura: una riforma del codice di procedura civile, per di più se scritta in modo oscuro e lutulento. Neppure serve spaventare i magistrati con lo spettro della responsabilità civile: altrimenti facciamo la giustizia difensiva, in aggiunta alla medicina difensiva, e le decisioni giudiziali coraggiose saranno condannate a scomparire. Vorrei proporre, pertanto, quattro “orti dialoganti”.

Partiamo dall’analisi seria dei numeri: bisogna analizzare due fenomeni diversi, le pendenze (quanti processi pendono e da quanto tempo) e le sopravvenienze (quanti processi si instaurano annualmente). A fronte di un eccesso di sopravvenienze, chiediamoci come mai ci sia tanta domanda di giustizia, per di più davanti a giudici dei quali i cittadini italiani hanno sempre meno fiducia (già questo è un sintomo di disturbo collettivo). L’eccesso di pendenza può a sua volta dipendere da giudici che lavorano poco o male, oppure da un arretrato cronico creatosi proprio per la mole di sopravvenienze annuali. Insomma, occorre un’analisi qualitativa del dato quantitativo. Nella mia esperienza, puoi lavorare anche tanto e abbattere le pendenze, ma se le sopravvenienze sono troppe, il sistema resta malato e la convalescenza rischia di volgere in ricaduta. In secondo luogo, il giudice applica la legge, ma risolve anche controversie con generali principi di ragionevolezza e attuazione di decisioni giuste. Esiste uno spazio per conciliare le controversie ancora poco utilizzato: ma per conciliare davvero, il giudice deve avere pochi fascicoli a udienza, studiarli a fondo, sviluppare doti empatiche e comunicative e cercare di cogliere dove si annida l’attrito.

Nella mia esperienza al Tribunale delle imprese di Napoli, l’ascolto approfondito delle parti ha portato a soluzioni concordate intelligenti e lungimiranti, oltre a costituire un rinnovato rapporto di fiducia con l’autorità giudiziaria. La quale, per fare questo, deve avere uno spazio di movimento discrezionale forte, ma anche saperselo meritare con una formazione specifica. Insomma, credo molto nella funzione del giudice “arbitro/pretore”, fallita la quale si emetterà la sentenza. Questa è questione culturale, e non solo di leggi e codici. A proposito di sopravvenienze: una cosa che mi pare non funzionare, è che alla udienza, ad esempio, del 20 settembre, mi arrivano dieci nuove cause tutte insieme, assegnate al giudice in base a criteri cronologici. Quei dieci affari nuovi potrebbero avere natura molto diversa: tre importantissimi, tre medi, quattro di scarsa importanza economica o sociale.

Oppure alcuni potrebbero essere già oggetto di decisioni consolidate della Corte di cassazione, sicché andrebbero decise agevolmente, con evidenza immediata dei torti e delle ragioni. Per non avere tutto nello stesso piatto, sarebbe utile avere un giudice filtro che, a mezzo regole precise, calendarizzi la trattazione degli affari, e all’udienza del 20 settembre dia semaforo verde per i tre affari urgenti o delicati, e di complessa definizione, cadenzando nel tempo il resto degli affari. La Corte europea, per affrontare le migliaia di ricorsi che approdano a Strasburgo, ha istituito il giudice filtro. In Corte d’appello sarebbe molto importante: il giudice filtro potrebbe anche esperire funzione arbitrale. La litania della diagnosi infausta della giustizia italiana continua a non fare i conti con una iniquità mostruosa: la totale irrazionalità delle piante organiche. Tribunali italiani sovraccarichi versus tribunali italiani con carichi di lavoro leggeri, i primi spesso con meno giudici dei secondi. La stessa iniquità si misura nel rapporto tra centro e periferia: tribunali come Nola, Napoli Nord, Santa Maria Capua Vetere sono aggravati da numeri non proporzionati al numero dei giudici, se comparati, gli uni e gli altri, col Tribunale di Napoli. E come si fa a capire come ridisegnare le piante organiche?

Con uno strumento, previsto dalla legge, ma che resta ancora inattuato da circa 15 anni: lo standard di rendimento del magistrato. Se infatti si elaborasse uno standard di rendimento per le varie funzioni del giudice civile, avremmo tutti sotto gli occhi come ricostruire le piante organiche. Smettiamola di chiedere più risorse, se non sappiamo utilizzare in modo razionale e rigoroso quelle che abbiamo. Resta a questo punto un’ultima considerazione, ma è la più importante: la riduzione della giustizia civile soltanto a numeri, ha mortificato la portata intellettuale unica del giudice, e del giudice civile in particolare. Quella mortificazione, sotto i panni ipocriti dell’efficienza, ha fatto perdere a molti di noi il senso della nostra identità: che è quella di ascoltare e poi scrivere una decisione giuridicamente argomentata e il più possibili “certa”. E stiamo vedendo tutti a cosa può portare l’oblio dell’identità del magistrato, che è un uomo solo, solitario, che studia molto, e pensa tanto, e tiene orecchie e braccia aperte alla società. Chi è il responsabile della spinta produttivistica?

Quali politici, quali atti del Csm, quali esponenti dell’Anm? Comincio ad avere la nausea all’idea dell’ennesima riforma del codice di procedura per accelerare: magistratura e avvocatura ancora attendono analisi e risposte vere e di sistema. La domanda che però dovremmo farci è: perché nessuno vuole davvero risolvere la questione dei tempi e della qualità della giustizia civile? Per rispondere a queste domande servono storia, filosofia ed economia. Non vedo attorno fulgidi esempi di siffatte competenze in chi deve decidere circa la diagnosi definitiva del morbo che attarda la giustizia civile. Esiste infine un modo: la vedova del Vangelo di Luca che sfianca il giudice iniquo che si annoia di decidere fino a che quegli, per esasperazione, decide. Ma a essere esasperati non devono essere i giudici, ma tutti colori che hanno mancato e continuano a mancare una soluzione di verità e di dignità per i magistrati che lavorano, gli avvocati che fanno seriamente il loro mestiere e i cittadini che attendono risposte di giustizia.