C’è da aspettarselo: anche davanti a numeri tanto allarmanti, i manettari di turno faranno spallucce e magari si abbandoneranno a refrain del tipo “buttate la chiave”, “requisite i conventi” o “ripristiniamo la pena di morte”. Eppure, in un Paese civile, la relazione annuale stilata dal garante campano dei detenuti imporrebbe una riflessione seria su quell’inferno in cui, tra celle strapiene e atti di autolesionismo crescenti, si sono trasformate le carceri.
I dati sul sovraffollamento parlano chiaro: nel 2018 la popolazione carceraria campana superava la capienza regolamentare del 14 per cento, mentre nel 2019 si è arrivati al 17. Certo, nelle ultime settimane la pandemia ha ridotto il numero degli ingressi negli istituti di pena, ma la situazione resta angosciante.

“Il problema non è stato arginato, ma tende ad aumentare – sottolinea il garante Samuele Ciambriello – e se la situazione appare meno grave nei penitenziari dell’Avellinese e del Beneventano, a Poggioreale e Pozzuoli si registra un sovraffollamento da record”. Non bisogna dimenticare, inoltre, che il 22 per cento delle celle non dispone di docce e al 37 manca il bidet. Diversi penitenziari sono privi di spazi per gli incontri con i minori e per il lavoro artigianale, attività ridotte negli ultimi tempi per evitare assembramenti capaci di agevolare la diffusione del Coronavirus. E il personale? Anche quello è carente: il rapporto tra detenuti e agenti di polizia penitenziaria si attesta al 51 per cento, quello tra detenuti ed educatori supera di poco l’1,25.

E allora non deve meravigliare il fatto che gli atti di autolesionismo siano aumentati del 32 per cento nel 2019, mentre gli scioperi della fame o della sete hanno fatto un balzo in avanti del addirittura del 55 rispetto all’anno precedente. Se si osserva che il 21 per cento delle visite specialistiche non può essere effettuato a causa di difficoltà del nucleo traduzioni, si comprende come la vita in carcere sia ancora lontana da quel senso di umanità sancito dall’articolo 27 della Costituzione.

“Il carcere, questo grande rimosso sociale, resta l’unica vera cartina di tornasole della nostra civiltà – conclude Samuele Ciambriello – Ecco la prospettiva che ci deve guidare: non abbandonare le persone che vivono una condizione di emarginazione e di reclusione. E continuare a credere che in quel luogo distanziato dalla società civile che è il carcere ci sia la possibilità di migliorare e di emanciparsi”.

 

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Classe 1987, giornalista professionista, ha cominciato a collaborare con diverse testate giornalistiche quando ancora era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università Federico II di Napoli dove si è successivamente laureato. Per undici anni corrispondente del Mattino dalla penisola sorrentina, ha lavorato anche come addetto stampa e social media manager prima di cominciare, nel 2019, la sua esperienza al Riformista.