“Luca Palamara show” ieri mattina davanti alla prima Commissione del Consiglio superiore della magistratura, competente per le investigazioni nei confronti delle toghe. L’ex zar delle nomine era stato convocato, il giorno prima, per essere sentito dai suoi ex colleghi. Nell’atto di convocazione non era, però, indicato il motivo. Al termine dell’audizione, durata circa novanta minuti, è trapelato poco o nulla. A Palamara è stata imposta la consegna del silenzio e tutto è stato “secretato”, nelle migliori tradizioni italiche e alla faccia della tanto invocata “casa di vetro”, come dicono i vari vice presidenti del Csm per descrivere l’asserita trasparenza che dovrebbe contraddistinguere l’operato dell’Organo di autogoverno delle toghe.

Tuttavia qualcosa il Riformista è riuscito a sapere delle domande, non molte per la verità, rivolte a Palamara e che sembra riguardassero soprattutto il sistema nomine, ampiamente descritto nel libro Il Sistema che il magistrato ha scritto con Alessandro Sallusti, e l’esposto dell’ex pm romano Stefano Rocco Fava, ora giudice a Latina, contro l’allora procuratore Giuseppe Pignatone e l’aggiunto Paolo Ielo. Il presidente della Commissione, la togata progressista Elisabetta Chinaglia, pare abbia cercato di contingentare sia gli argomenti che le domande. Di diverso avviso, invece, i laici Alessio Lanzi (FI) ed Emanuele Basile (Lega) che hanno insistito per affrontare più tematiche. Molto interessato alle vicende della Procura di Roma pare sia stato il pm antimafia Nino Di Matteo, con domande precise e puntuali.

Prendendo spunto dalle celeberrime chat di Palamara, la discussione si è inizialmente indirizzata sulle vicende degli uffici giudiziari milanesi e sulla persona del procuratore del capoluogo lombardo Francesco Greco, ormai prossimo alla pensione e al centro di molte polemiche recenti per via dell’assoluzione nel processo Eni–Nigeria di tutti gli imputati. Processo che ha lasciato uno strascico con il presidente del Tribunale di Milano Roberto Bichi. Oggetto del contendere, in questo caso, l’utilizzo delle dichiarazioni del solito Pietro Amara, l’ideatore del “Sistema Siracusa”, l’associazione di magistrati e professionisti finalizzata a pilotare le sentenze al Consiglio di Stato e ad aggiustare i processi nei vari tribunali italiani, contro il presidente del collegio Marco Tremolada. Davanti ai pm milanesi Amara aveva raccontato di aver saputo dal capo dell’ufficio legale di Eni che i difensori dei vertici del colosso petrolifero, come la professoressa Paola Severino che assisteva l’amministratore delegato Claudio Descalzi, “avevano accesso” al presidente Tremolada.

A fine gennaio 2020 il procuratore Greco con l’altro aggiunto Laura Pedio, in pieno dibattimento Eni-Nigeria, aveva trasmesso alla Procura di Brescia, competente per i reati commessi dalle toghe milanesi, il verbale di Amara con la testimonianza nei confronti di Tremolada. A Brescia venne subito aperto un fascicolo, a carico di ignoti, per traffico di influenze illecite e abuso d’ufficio. Fabio De Pasquale, l’aggiunto che aveva condotto le indagini contro Eni, omissando parte del verbale di Amara, tentò anche di produrlo all’udienza del 15 febbraio senza riuscirci.

Gli avvocati dell’Eni, ascoltati poi a Brescia, negheranno di aver mai detto nulla di ciò ad Amara. Un tentativo maldestro di condizionare il processo che ha mandato questa settimana su tutte le furie Bichi. Palamara, essendo il tema molto scivoloso, ha dirottato la discussione sulle ben più gravi vicende romane. Come le nomine degli attuali procuratori aggiunti della Capitale e l’esposto di Fava. Riguardo alla nomine degli aggiunti avrebbe ribadito quanto risultante dalle intercettazioni e dalle chat sugli interventi sistematici di Pignatone, e comunque anche di Greco a Milano, per ottenere nomine a lui gradite – poi effettivamente ottenute – quali quelle di Paolo Ielo, Rodolfo Sabelli e Giuseppe Cascini. Nei confronti di quest’ultimo, che aveva già negato questa ricostruzione, Palamara si è anche dichiarato pronto ad un pubblico confronto. Circa l’esposto, il magistrato ha chiarito ai consiglieri che lui sollecitava soltanto i doverosi approfondimenti di una situazione oggettivamente grave poiché era risultato che Pignatone avesse coassegnato il fascicolo di Fava su Amara ad altri tre magistrati – per pura coincidenza Ielo, Cascini e Sabelli – ed Amara aveva conferito incarichi al fratello dello stesso Pignatone.

I documenti avrebbero dimostrato che Pignatone aveva anche scritto a Giovanni Salvi, allora procuratore generale presso la Corte di Appello di Roma, molto tempo dopo aver adottato gli atti e neppure comunicando tutte la situazioni di incompatibilità. In particolare non risulterebbe nessuna indicazione del rapporto di Pignatone con il giudice del Consiglio di Stato Riccardo Virgilio, poi arrestato con l’accusa di aver pilotato delle sentenze a Palazzo Spada, e dell’incarico ricevuto dal fratello da Pietro Balistreri, altro indagato del procedimento e socio di alcuni imputati per mafia in Sicilia. Salvi, pur essendo a conoscenza che Pignatone aveva comunicato con ritardo e parzialmente, avrebbe invece scritto al Csm e a via Arenula che il procuratore di Roma aveva fatto la dichiarazione di astensione tempestivamente e segnalando tutte le situazioni pregiudicanti.

L’esposto, presentato a marzo del 2019, è ancora pendente a Palazzo dei Marescialli. Un altro caso segnalato da Palamara, infine, riguarderebbe moglie e marito che svolgono entrambi il ruolo di procuratore aggiunto a Roma: Stefano Pesci e Nunzia D’Elia. Pesci aveva preso il posto che era stato lasciato libero da Cascini in quanto eletto al Csm.