Dopo tanto discutere, anche se in sedi pressoché esclusive, sulla globalizzazione, sulla necessità di quello che si chiamò un tempo il global legal standard, le nuove regole per le attività economiche e finanziarie (ma non solo), sulla globalizzazione della solidarietà e su quella in generale del diritto concependo l’esigenza di un nuovo ius gentium, nessuno avrebbe potuto immaginare, prima del 24 febbraio, nonostante le ricadute della pandemia, il colpo che sarebbe stato inferto alla stessa globalizzazione con la guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina.

Le tre fasi del fenomeno degli ultimi 20-25 anni – la globalizzazione dei commerci, della finanza e degli uomini – hanno apportato miglioramenti anche nei Paesi meno favoriti, ma hanno pure accentuato le disuguaglianze, mentre sono mancate la forza, la capacità e i consensi, a livello mondiale, per regolare il fenomeno: basti pensare al tema delle migrazioni. Sembra quasi avere ancora oggi valore la frase contenuta in uno degli epigrammi di Marziale: Semper pauper eris, si pauper es. Dantur opes nullis nisi divitibus. All’inizio degli anni duemila, con le spinte alla remissione del debito dei Paesi poveri in occasione del Giubileo della Chiesa cattolica, forse ci si era illusi che il cammino verso un nuovo ordine internazionale, inizialmente anche se solo monetario, sarebbe stato non impervio. Erano gli anni in cui, anche nel G20, si parlava di istituzionalizzare la categoria dei “beni pubblici globali” e ritornava l’attenzione a Bretton Woods, a ciò che in quella Conferenza fu deciso, mentre stava finendo il secondo conflitto mondiale, con l’Istituzione del Fondo monetario internazionale, e a ciò che non fu approvato, la moneta mondiale, il Bancor, progettata da J.M. Keynes. Era comunque la fase in cui, con la Conferenza di Yalta, il mondo veniva regolato per aree di influenza, un’antitesi, in effetti, a possibili forme di integrazione.

Oggi si constata l’arretramento anche da quelle aspirazioni non approfondite adeguatamente negli anni della crisi finanziaria globale, a partire dal 2008, e poi in quelli dei debiti pubblici e negli anni, successivi, degli impatti della pandemia e della ripresa dell’inflazione. Al più, il tema di un nuovo ordine rimaneva la conclusione non rigorosamente analizzata, quasi una conclusiva clausola di stile, di discorsi che affrontavano argomenti più ravvicinati. In questo quadro di incertezze, piomba la guerra la quale mette a nudo il ruolo dei principali organismi internazionali, a cominciare dall’Onu che oggi manifesta ancor più la sua debolezza, ma anche l’assoluta difficoltà di iniziative che fossero volte a superarla, a cominciare da quella riguardante il diritto di veto che hanno i membri del Consiglio di sicurezza.

Una tale difficilissima, se non oggi impossibile, revisione dovrebbe essere comunque parte di una più ampia riforma che riguardi la struttura e il funzionamento dell’organismo nonché i suoi rapporti con altre istituzioni internazionali – del pari da riformare – quali , tra le altre, il Fondo monetario internazionale e il Financial Stability Board (quest’ultimo, da un po’ di tempo, addirittura “non pervenuto”), la Banca mondiale, l’Organizzazione mondiale del commercio. In particolare, il Fondo monetario potrebbe assumere la configurazione di una istituzione che presieda alla liquidità monetaria internazionale, sulla scia del progetto di Banca centrale mondiale che era caro a Keynes, rafforzando il ruolo del Financial Board nella prevenzione delle crisi. Vi è, poi, il ruolo della Nato – anche se ci si sposta così verso organi che rappresentano alleanze di Stati – messo alla prova dalla guerra in corso con il bisogno, ora pressante, di una riflessione. Anche i rapporti tra Banche centrali delle diverse aree del globo andrebbero analizzati nella prospettiva di istituzionalizzare momenti di confronto e di possibili convergenze.

Si sta manifestando, altresì, il problema delle Corti internazionali e del fondamento, nonché dell’applicazione dei loro poteri, a cominciare dal perseguimento dei crimini contro i diritti umani e dai crimini di guerra. Lo ius publicum globale è tutto da costruire se si pensa all’organicità dei principi, delle norme e della giurisdizione nonché al loro fondamento. Finora, anche i giuristi si sono prevalentemente esercitati sulla legislazione europea e sulla sua applicazione pure ai privati. Non è comunque alle viste un sia pure “ collettivo” Ugo Grozio o un Francisco de Vitoria che diano impulso al rinnovamento auspicato, per di più nell’ora più buia in cui la barbarie delle truppe putiniane si macchia in Ucraina di orrori e del sangue di persone inermi. L’indignazione, la condanna, il riferimento al diritto naturale sono spontanei e toccano tutti i punti del globo. Ma come darvi uno sbocco concreto? Bisogna aspettare la fine della guerra per costruire e ricostruire nel diritto e negli ordinamenti alla stregua di ciò che avvenne nel secondo conflitto mondiale? E ora ci si relega nell’inerzia, dopo avere accentuato l’analisi e l’aggettivizzazione delle stragi? Esiste, insomma, un sequitur tra i feroci massacri che si osservano e le iniziative che si intraprendono dall’Occidente? E il problema irrisolto, a cominciare dalle diverse aree del mondo, delle migrazioni e ora, a maggior ragione, dell’ingrossarsi delle file dei profughi e dei rifugiati? Una mobilitazione non solo della politica, ma anche degli studiosi su questi temi si imporrebbe.