Nella classifica delle beffe, l’ultima di Silvio Berlusconi si iscrive al livello di quella radiofonica, sullo sbarco di astronavi extraterrestri ostili, che Orson Welles interpretò nella notte del 30 ottobre 1938. In verità gli americani erano stati avvertiti che si trattava della riduzione per la radio di un noto romanzo, ma moltissimi rimasero convinti – ci furono ovunque scene di panico – che quanto veniva raccontato, con la bravura di un grande artista, corrispondesse alla realtà. Nel caso della candidatura di Silvio Berlusconi al Colle noi tutti abbiamo una sola scusante: nessuno ci aveva avvertiti che si sarebbe trattato di una messa in scena, perché neppure il protagonista se ne era reso conto; anzi credeva di essere proprio lui il marziano che scende a Roma.

Ma noi tutti ci siamo cascati come grulli e abbiamo continuato a credere per settimane nella nuova sfida del Silvio Campeador, fino a quando Licia Renzulli non ha letto il comunicato della solenne rinuncia del Cav, il quale, pur disponendo a suo dire dei voti necessari per essere eletto, compiva il beau geste nell’interesse nazionale. A nessuno è venuto il dubbio che si trattasse del delirio di un anziano signore, irriducibile, che insiste a fare politica con la medesima illusione che lo induce a circondarsi di giovani fidanzate le quali, quando se ne vanno, gli lasciano per ricordo un cagnolino bianco. A parte i visionari che immaginavano già il Cav seduto nella Sala degli Arazzi, circondato da corazzieri, i commentatori più patetici hanno sostenuto con mille argomenti che la candidatura di Berlusconi era improponibile, come se fosse possibile un impeachment preventivo. Abbiamo letto articoli che grondavano di stupore e disperazione, perché gli autori immaginavano già Silvio Berlusconi nell’atto di presiedere il Csm o di avvalersi delle sue prerogative quirinalizie all’insegna del solito conflitto di interessi.

Vi sono state minacce di espatrio, sottoscrizioni di appelli, inviti a insorgere e quant’altro. Ma anche i commentatori favorevoli o non ostili non hanno capito l’antifona. Qualcuno ha teorizzato che, con la sua candidatura, Berlusconi innovava la prassi dell’elezione del capo dello Stato, aprendo una fase in cui la competizione prendeva il posto della ricerca del consenso (che poi è stata l’eccezione, non la regola). In generale, quella del Cav è stata ritenuta (sotto sotto anche dagli avversari) una mossa geniale, all’altezza di un politico di razza che – da una posizione di oggettiva difficoltà – diventa il mazziere della partita del Quirinale. Spicca in questo “odi et amo” per il signore di Arcore una dichiarazione di Angelo Guglielmi al Foglio: «Ha già vinto in ogni caso.

Il suo nome è tornato il nome che tutti sussurrano». Anzi, ad avviso dell’ex direttore mitico di Rai 3, il Cav «è capace di ogni cosa tranne che perdere». Con la sua candidatura – si è detto e scritto – Berlusconi si era impossessato dell’iniziativa del centrodestra perché né SalviniGiorgia Meloni avrebbero potuto negargli il loro appoggio almeno fino alla quarta o alla quinta votazione. Di conseguenza, se, come raccontava lui stesso, il Cav avesse racimolato un discreto numero di voti da costituire una maggioranza relativa di un certo riguardo, nel fronte avversario si sarebbe materializzato il terrore che covava sotto la cenere dal momento in cui Berlusconi aveva ipotizzato la sua candidatura. A quel punto, tutti, nemici e amici, avrebbero dovuto trattare con lui. Costoro – si parva licet appartengo anch’io a questo esercito degli analisti de noantri – sono rimasti in braghe di tela sabato sera quando il Cav ha gettato la spugna ancor prima di iniziare il match.

Il fatto è che così tutto il castello (che alla fine si è rivelato di carte) è crollato; e ha azzerato le posizioni. Infatti, il centrosinistra è rientrato in gioco e si è riaperto quel problema di un negoziato che, invocato da tutti, è impedito dal diritto di veto che ciascuno degli schieramenti può esercitare. Il centrodestra si troverebbe, in teoria, in una posizione di vantaggio; infatti, ammesso e non concesso che riuscisse a trovare una intesa al suo interno, sarebbe in grado di mettere in campo un maggior numero di candidature istituzionali che il centrosinistra: Elisabetta Casellati (seconda carica dello Stato), Marcello Pera (ex presidente del Senato), Giuliano Amato, prossimo presidente della Consulta, Franco Frattini presidente del Consiglio di Stato. Ma su ciascuno di questi nomi Letta ha già messo il veto, facendo circolare candidature concordate con Conte (è bene non coinvolgere tutto il M5s) e Leu.

Il Cav – nel suo delirio – ne ha combinata un’altra delle sue, ancora più grave (di cui è arduo comprendere il significato). Ha portato avanti (speriamo non a compimento) il lavoro sporco che la sinistra non osava compiere: impedire l’elezione di Mario Draghi. Berlusconi – prima che il gallo cantasse – ha negato per ben due volte l’appoggio al trasferimento del premier da Palazzo Chigi al Quirinale. La prima in occasione della conferenza stampa in cui Draghi aveva lasciato intendere garbatamente la sua disponibilità; la seconda, sabato scorso, nel comunicato di rinuncia. Se nel primo caso si poteva pensare all’interesse di non avere un competitore di quel livello nella corsa al Colle, nel secondo non vi è alcuna spiegazione plausibile se non un servizio al Re di Prussia, come si diceva una volta. A questo punto non resta che sperare in una rielezione di Sergio Mattarella. Le ragioni della sua indisponibilità sono dipese certamente da motivi di correttezza istituzionale; ma – non c’è dubbio – anche dal modo con cui gli è stato proposto il secondo mandato nell’ambito del centro sinistra. Come se fosse implicita un’elezione a termine, come se tra un paio di anni tutti si aspettassero le sue dimissioni.